Beato Angelico: l’opera d’arte come itinerario verso Dio

Nel 2005 è stato indetto un comitato nazionale per la celebrazione dei 550 anni dalla morte di Beato Angelico, il grande pittore fiorentino noto per la sua arte devota e per la vita casta e ritirata. Un importante convegno svoltosi a Roma nel giugno 2006 ha segnato il punto degli studi sul maestro fino ad oggi.
Questo ci fornisce l’occasione per ricordare un artista di eccellente levatura che tra i primi intuì quanto l’arte abbia la capacità di far conoscere Dio ai cuori e alle menti di quanti la sanno osservare.
Giovanni da Fiesole, il domenicano che dipingeva
Quando prese i voti per entrare nell’ordine domenicano, Guido di Piero (1395ca.-1455) adottò il nome di Giovanni, ben lungi dall’immaginare che sarebbe stato celebrato e conosciuto da tutti e per sempre con due appellativi tanto espressivi come “Beato” e “Angelico”. Già i contemporanei solevano riferirsi a lui in questo modo, sottolineando l’effetto che la sua pittura e la sua condotta di vita producevano.
A dispetto di quanto comunemente si sa e si immagina di un tale genio artistico e della sua nota devozione, non si deve dimenticare il fatto che egli fu pienamente un pittore rinascimentale, che non volle prescindere dal ricco momento culturale e storico che stava vivendo. Firenze nella prima metà del XV secolo era un crocevia di importanti eventi che certo influenzarono gli spiriti più recettivi dell’epoca.
Attraverso i documenti si conosce poco della formazione del pittore, ben più si evince dalle indagini stilistiche. È probabile una vicinanza iniziale a Lorenzo Monaco e a uno dei pittori più affermati di inizio secolo: Gherardo Starnina. Ma sono soprattutto evidenti le componenti fiamminghe nei suoi dipinti e l’attento studio dell’opera di Masaccio, suo coetaneo.
Uno dei primi lavori di Beato Angelico di cui si ha una data precisa (1433) è il Tabernacolo dei Linaioli (oggi al Museo di San Marco a Firenze), che riprende nei moduli geometrici delle forme, nella “corposità” delle figure, l’impianto solido delle rappresentazioni di Masaccio. È naturalmente innegabile la lontananza di intenti tra i due artisti, l’uno rivolto a indagare la verità storica dell’uomo nella realtà, l’altro a rappresentare il concetto tutto spirituale della preghiera e del misticismo. Ma l’utilizzo di determinati mezzi espressivi è senza dubbio un punto in comune tra i due.
Beato Angelico era conscio delle sfumature pagane all’interno della cultura umanistica, ma invece di contrastarle o escluderle, le utilizzò a maggior gloria del Signore. Era un religioso che aveva a cuore la conoscenza, e condivideva il pensiero del domenicano Sant’Antonino, allora arcivescovo di Firenze, riguardo all’importanza dell’arte come eccezionale mezzo educativo e di catechesi.
Beato Angelico e i capolavori degli anni Trenta
La ricerca prospettica, l’attento studio della luce, che può dare sostanza a un’immagine e allo stesso tempo indagarla nel dettaglio, portano l’artista a rafforzare i propri intenti comunicativi. In questo modo il bello può manifestarsi ad ogni intelletto che lo ricerchi.
Il grande Giudizio Universale dipinto all’inizio degli anni Trenta è ancora legato a stilemi tardo-gotici, ci sono alcune sproporzioni, ma è già presente una visione prospettica per piani. La sua pittura si discosta ormai dal vagheggiamento ascetico di Lorenzo Monaco e grazie all’utilizzo dei modi rinascimentali offre al mondo opere quali L’incoronazione della Vergine (oggi al Louvre), con il suo potente impianto prospettico, e la meravigliosa pala con la Deposizione dalla croce per la sacrestia di Santa Trinita (oggi al museo di San Marco a Firenze).
In questo dipinto la composizione, elegante e simmetrica, ha come punto focale il corpo di Cristo. Maria e le donne lo stanno per accogliere nel sudario, mentre nel lato opposto alcuni dotti speculano sui simboli della passione. La natura è primaverile, verde e fiorita, a simboleggiare la rinascita, la Resurrezione, e sullo sfondo si apre un articolato paesaggio. In ciascun personaggio è evidente il coinvolgimento emotivo, evidenziato dai gesti, dall’espressione dei volti, dal gioco di sguardi.
L’arte ha dunque la necessità di comunicare gli affetti, oltre alla conoscenza. Inoltre nell’Incoronazione della Vergine già citata, alcune figure in primo piano voltano le spalle allo spettatore, con un forte senso della realtà prospettica e con una chiara volontà del pittore di coinvolgere nella rappresentazione chi guarda.
Arte, meditazione e preghiera
Il momento più noto della carriera di Beato Angelico è la direzione dei lavori di decorazione a fresco nel convento fiorentino di San Marco (1439-1446). Papa Eugenio IV aveva concesso la sede ai domenicani e Cosimo de’ Medici aveva commissionato a Michelozzo la ristrutturazione dell’intero complesso.
Beato Angelico affrescò con un numeroso stuolo di aiuti i corridoi e quarantaquattro celle nei dormitori dei frati. La luce intesa come luce divina si propaga dappertutto seguendo i principi della luce naturale; perciò nella raffigurazione nota come Madonna delle ombre la luce proveniente da una finestrella sulla sinistra della parete viene ricreata e sottolineata nel dipinto.
I soggetti sono tratti dalle Sacre Scritture e offrono spunti per la meditazione e la preghiera dei frati. È una pittura ascetica, in questo caso, spoglia, ma ricca di simboli e di riferimenti colti. Non è più una pittura per tutti, e certo non è più essenzialmente decorativa. All’interno delle raffigurazioni si trovano i personaggi dell’ordine domenicano, a volte san Domenico stesso, e Maria che si raccolgono in preghiera, in primo piano, dinnanzi alla rievocazione evangelica.
È meravigliosa la semplicità scarna con cui l’artista riesce a rappresentare l’Annunciazione in una delle sue opere più famose tra gli affreschi in San Marco. La Vergine non appare come una regina, non è adorna, eppure riluce di bellezza e il suo intimo colloquio con l’angelo sembra risuonare nell’aria.
Alla fine degli anni Quaranta Beato Angelico fu chiamato da Papa Niccolò V per la decorazione della sua cappella privata in Vaticano. Qui il tono degli affreschi è molto differente e mostra cadenze auliche e anticheggianti, a conferma dell’importanza che il pittore attribuiva alla capacità di arrivare pienamente ai destinatari delle sue opere. Se in San Marco i suoi dipinti erano delle pie meditazioni, nei palazzi Vaticani diventano (riprendendo le parole di Argan) «sermoni latini». Non a caso egli apparteneva all’ordine cosiddetto “dei Predicatori.”
La sua tomba, per chi voglia oggi visitarla, si trova nella chiesa romana di Santa Maria sopra Minerva, nella cappella dedicata a San Tommaso d’Aquino; la lapide reca l’iscrizione in latino “Gloria dei pittori e specchio di virtù, Giovanni, uomo fiorentino, è riposto in questo luogo. Era un religioso frate del santo ordine dell’almo Domenico e un vero umile servitore di Dio”.
Con la sua arte, perciò, oltre che con la sua vita, egli servì Dio. E il valore della sua opera viene ulteriormente riconosciuto con l’aggiunta della frase “Si lamentino i discepoli privati di tanto dottore”. Se si ricorda inoltre che il frate Domenico di Giovanni da Corella (probabile autore dell’epitaffio) definisce nelle sue pagine (Theotocon, 1469) l’artista quale Angelicus pictor, questa sembra un’associazione al grande Tommaso d’Aquino, Doctor Angelicus dell’ordine.
FONTE: Radici Cristiane n. 20